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Kurdistan, l’Iraq con gli occhi delle donne

Surya ha gli occhi color acquamarina e vende piccoli cestini di fichi lungo la strada. Sono dolcissimi, sia i frutti neri più compatti, che quelli verdi più morbidi e piccolini. Siamo nella stagione di melagrane succose e di fichi venduti nei mercati, accatastati su grosse pile in equilibrio perfetto. Gli occhi di Surya sono profondi, magnetici, capaci di raccontare già molte storie; invocano un acquisto che non possiamo mancare, scrutano la nostra anima. Mangiamo i fichi mentre ci lasciamo alle spalle paesaggi solitari a ridosso di montagne che segnano confini contesi.

La città riappare in lontananza come un miraggio di modernità e cambiamento; la Storia diventa l’inevitabile punto di partenza di un presente in costante crescita e la voglia di rinnovamento emerge con il desiderio di isolare la guerra in un trascorso lontano. I giovani sembrano pronti per lasciarsi alle spalle tutto l’orrore e la miseria; nelle università cittadine, così come nei ristoranti, dove le amiche cenano ascoltando musica e conversando liberamente, in allegria. La musica è un sottofondo irrinunciabile che si allarga tra cantanti arabi, musica curda, successi internazionali e classici della tradizione interpretati da giovani occidentali che provano i loro archi per un concerto nell’anfiteatro della Cittadella di Erbil. Ma anche balli caraibici, sulle musiche rivisitate di “Bella ciao”, un canto che diventa inno pop e vola oltre i confini delle nazionalità, tra minigonne, abiti attillati e sobri foulard che coprono il capo, si uniscono giovani curdi, iracheni, siriani, iraniani e argentini. La tradizione rimane un valore di riferimento e si ritrova nelle lunghe tuniche dai ricami preziosi ed eleganti, indossate con disinvoltura non solo durante gli eventi più chic. Ma non mancano jeans, sneackers e magliette colorate, che si mescolano tra ragazze con il velo, si dice spinte dai fondamentalisti per allontanare sempre di più la possibilità di una indipendenza curda. Due aspetti diversi, difficilmente integrabili nelle amicizie quotidiane, ma che coesistono nella accettazione delle differenze di ognuno, in un islam che appare moderato e tollerante. Alla International School of Duhok, una delle scuole nate dopo la liberazione dall’ISIS, si impara la convivenza e a non avere paura uno dell’altro; gli studenti sono maschi e femmine di tutte le religioni.

Incontriamo donne capaci di emergere, nel mondo del lavoro e dell’arte. Donne indipendenti, che si muovono in autonomia guidando nel traffico di Erbil. Ragazzi e ragazze con il senso del sacrificio e lo scopo di costruire il proprio futuro, consapevoli che imparare  sia un’opzione da non perdere. Una normalità fatta anche di piccoli gesti quotidiani e di vita che scorre… alle cascate di Bekhal ci si rinfresca dalla calura bagnandosi nell’acqua, si bevono bibite e spremute fresche, si fanno acquisti. Vanitosi ragazzi provano occhiali colorati a specchio, la moda del momento, e le donne portano il velo sopra enormi acconciature cotonate, orgogliose di mostrare il cerottino sul naso appena rifatto, impegnate in sorridenti selfie tra amiche. Contrasti netti che mettono in risalto la grande forza femminile del Kurdistan. Solo il giorno prima ci trovavamo immersi nel terrificante Memoriale Amna Suraka, dove i volti di centinaia di donne peshmerga, rimangono a memoria di un passato recentissimo, combattuto con orgoglio e dignità da interi battaglioni femminili, divenuti simbolo di forza e di sacrificio.

 

Ritratti di donne, con le donne, per tutte le donne. Scambi di sorrisi, di foto, curiosità reciproche. Nuove amicizie che esplodono nella sincerità della timidezza e della voglia di comunicare. Ci ritroviamo attorno ad un piatto di dolma, mentre Hanna sta sistemando le candeline sulla torta. Siamo ospiti, di nuovi amici, fino a pochi giorni fa sconosciuti, che ora sono già nel nostro cuore… si festeggia un compleanno importante e ne siamo parte, nella bellezza delle relazioni sincere. Ascoltiamo curiosi per cercare di conoscere, avidi di notizie, di storia e di contemporaneità. Sappiamo di poter essere anche noi nuovi ambasciatori di un mondo percepito dentro confini convenzionali. Insieme a noi, colei che diventerà la prima guida donna in Iraq: un sorriso spontaneo e gioioso, innamorata della vita e dell’amore, orgogliosa del suo Paese e delle proprie origini.

 

Poi, il silenzio. Gli amici spengono le risa, le mani di Aram si staccano dall’oud, ci stringiamo attorno all’opera fotografica di Seivan. Per osservare il suo lavoro in punta di piedi con le giovani yazide emerse da un recente passato (era il 2014) di abusi, duri da ascoltare, oltre che nelle immagini. Una storia agghiacciante, che stima 5000 (sì, lo devo scrivere proprio in cifre perché appaia in tutta la sua enormità) donne vendute più e più volte come schiave sessuali, oltre a migliaia di bambini arruolati come soldati. Un lavoro accurato, quello di Seivan, morbido e dal tocco delicato, che scaturisce in una mostra fotografica, capace di far incontrare una storia sconosciuta ai più. «Ho dovuto guadagnarmi con molta pazienza la loro fiducia», «it was sad… è stato triste, doloroso, ma sentivo che potevo e dovevo farlo», ci racconta Seivan, mentre siamo immobili ad ascoltare. «Ho parlato a lungo con le ragazze e ci sono stati molti incontri prima di arrivare alla loro disponibilità di apertura».

Osservo le sue foto, provo a comprendere le sofferenze dietro a quei veli, cerco di immaginare i visi di quelle ragazze, bambine che hanno conosciuto una crescita feroce e che hanno dovuto trovare la forza per sopravvivere all’orrore. Arrotolo con delicatezza, e sistemo nella valigia, una di quelle foto in bianco e nero. Scelgo, non senza commuovermi, uno di quei volti velati di bianco, nel pudore della sofferenza e nella sicurezza di una fotografia attenta al rispetto, dove il vuoto dei visi, schermati da opportune velature, riesce a comunicare il dolore attraverso l'arte. Dentro quelle foto, percepisco visi acerbi, sguardi impauriti, corpi annientati dal male, alla ricerca di una forza che consenta alle giovani yazide di reagire e di continuare a vivere.

Insieme alle fotografie di Seivan, il regista Jano Rosebiani porta sullo schermo cinematografico questo lavoro (Daughters of the ligth - Figlie della luce) in un atto importante, di conoscenza della propria storia e di racconto al mondo. Perché nessuna minoranza sia abbandonata ad un destino di persecuzione. Conoscere è il primo mezzo. Per loro una necessità di ricerca del proprio passato, un dovere verso il loro popolo. Storie arrivate a noi, in modo tangibile, solo pochi anni fa, quando fu assegnato il premio Nobel per la pace ad una giovane donna yazida. Nadia Murad, una delle migliaia di ragazze vendute all'Isis, aveva trovato il coraggio e la forza di raccontare le violenze di cui era stata vittima e testimone. 

 

Abbiamo incontrato gli yazidi nella Valle di Lalish, verso le montagne. Un popolo con un passato di persecuzioni, non solo recenti. Un culto, con elementi cristiani come il battesimo, la cui origine non è ancora del tutto conosciuta e il cui nome sembra derivare dalla parola iranica ized, angelo (“culto degli angeli”). Il Tempio sacro si raggiunge dopo una strada tortuosa e vi si riuniscono gli yazidi che arrivano fin qui per compiere il pellegrinaggio al sepolcro di Sheikh Adi. Un’occasione di incontro, soprattutto durante il festival o il capodanno. Il tempio, oggi Patrimonio UNESCO, è stato fortunatamente risparmiato dalla distruzione di Daesh e la tomba, omaggiata da drappi colorati lasciati dai fedeli, si raggiunge scendendo in una grotta sotterranea. C’è una pace quasi irreale, un senso di comunione e di libertà che sembra protetta dalle mura del tempio: uomini e donne in preghiera, giochi di bambini e chiacchiere di ragazzi, pentoloni di cibo comunitario, abiti bianchi adorni di vistosi ornamenti dorati e veli color glicine ad incorniciare volti luminosi e allegri. Un grande senso di devozione e un’aria di serenità fluttuante tra colori vivaci e leggeri, che ci appare lontana dalle storie di Seivan e di Jano. Un luogo che sembra poter cancellare il passato. Occhi gioiosi, pronti a ricambiare un sorriso, dentro i quali abbiamo cercato, invano, le ragioni dell’odio. I sorrisi sono ovunque, per chiunque. Senza paura.

       

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Potete trovare le fotografie di Seivan Behdinan al sito www.seivanphotography.com e informazioni su Jano Rosebiani, regista che ha contribuito alla nascita del cinema curdo e ambasciatore del suo popolo e della sua terra, premiato con diversi riconoscimenti internazionali  https://www.imdb.com/name/nm0741770/