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IRAN, tra le montagne dei curdi. I Monti Zagros nascondono bellezza e contrabbando

Poco prima di salire verso le montagne, ci siamo fermati ad acquistare del rabarbaro in fiore. Alcuni steli che si appoggiano sul cruscotto e poi si masticano pigramente, durante il viaggio, insieme a qualche pistacchio e una manciata di mandorle salate. Disseta e rinfresca. Abbiamo incontrato la guida curda qualche chilometro fa, per muoverci più facilmente e poter meglio conoscere le genti dei minuscoli villaggi montani. Shain è un giovane ragazzo immerso nella cultura del proprio popolo, moderno ma innamorato delle tradizioni. Vuole che la sua gente sia conosciuta, che sia apprezzata per la volontà di portare avanti memorie e fatiche di una vita non facile, per la caparbietà di rimanere qui, tra le montagne, isolati dal resto del paese, tra paesaggi incantevoli e generosi.

Attraversiamo il passo, tra valli di ciliegi e frutti non ancora maturi, poche le auto tra gli alpeggi e le malghe (awar) dove arriveranno, fra meno di un mese, i pastori con le greggi. Verso l’imbocco del sentiero mettiamo a fuoco i resti dei sacchi di plastica grigia e arancione che ricoprivano le merci trasportate dai kolbar e abbandonati al rientro dal fangoso cammino lungo le pendici della montagna. La sera i rifiuti vengono bruciati e il giorno successivo ricomincia la catena umana che si inerpica lenta sul sentiero che porta al confine iracheno.

Si può morire congelati sulle montagne del Kurdistan, cercando di attraversare il confine in inverno. Si può essere ragazzi alla ricerca di un lavoro per vivere, e non sapere misurare le insidie che le montagne racchiudono nei loro percorsi. Bisogna essere forti fisicamente per potersi caricare sulla schiena un frigorifero, oppure tre televisioni, ma bisogna anche avere l’esperienza degli uomini di montagna, saperne riconoscere i segnali e saperci convivere se capita l’imprevedibile. I monti Zagros dividono Iran e Iraq come una spina dorsale che d’inverno si ricopre di neve. Siamo a 1800 metri di altitudine, dopo i boschi di pistacchi selvatici e di castagni, partono alcune delle piste dei kolbar, qui quelle che trasportano tra i due paesi principalmente elettrodomestici e oggetti tecnologici, merce soggetta a pesanti dazi e difficile da reperire con l’embargo. I kolbar arrivano anche dalle vicine città, per lavorare durante la notte e ritornare a casa il giorno successivo. Un lungo cammino verso il confine iracheno, andata e ritorno. È un lavoro, faticoso e durissimo, per il quale bisogna mettere in conto che si potrebbe finire arrestati, qualora le guardie di confine non decidano di guardare altrove, e si potrebbe anche morire. Sì, succede. Qualche sparo può raggiungere un mulo, o anche un uomo.

I piccoli paesi abbarbicati alle montagne, incuneati tra le gole, si aprono all’improvviso, come scenari sempre diversi, nei quali scoprire gli infiniti dettagli di una cultura tradizionale rimasta a vivere tra le montagne. Palangan, forse il più conosciuto tra i villaggi curdi, si vede sul fondo della valle. Le case di sasso, addossate alla parete si alternano a quelle più nuove con la scritta Allah sui muri. Alcuni dei pesci della grande itticoltura a fondo valle nuotano ora nella vasca di vetro, in attesa di essere ripescati poco prima della cottura sulla brace. Si arriva fin qui, da Teheran, anche per questo, per ritrovare un ritmo lontano dal caos cittadino e per mangiare un grande pesce alla griglia servito con salsa di erbe e succo concentrato di melograno, immersi in una natura accogliente. Sediamo sui grandi divani ricoperti da tappeti di lana (a gambe incrociate, non senza fatica) a fianco di una famiglia in viaggio dalla capitale. Riusciamo a scambiare qualche parola con l’aiuto della figlia adolescente che parla un po’ di inglese, davanti allo sguardo di ammirazione e di orgoglio della madre verso quella giovane ragazza in grado di abbattere i confini imposti dalla lingua. In quegli occhi materni d’amore, tutta la consapevolezza che lo studio sia un passaporto di conoscenza e di libertà.

Anche i profumati e succosi pomodori sono cucinati sulle braci, ma separatamente dal pesce. La preparazione dei carboni è meticolosa e sapiente, tutta la famiglia è coinvolta nell’operosità del piccolo ristorante affacciato sull’altro crinale di Palangan, quello dove si trovano le case più vecchie e più volte distrutte da terremoti e alluvioni. È la sponda più verde, dove salgono gli animali verso i pascoli. Un tempo gli abitanti usavano spostarsi tra i due versanti, secondo l’alternarsi delle stagioni, mentre oggi si sposta soltanto qualche pastore e la piccola transumanza tra i due crinali non esiste più. I nomadi stagionali di Palangan si fermano ognuno nella propria abitazione, di fatto abbandonando le case più vecchie e convivendo con gli animali ai quali sono destinate minuscole stalle affiancate agli ingressi di casa.

Saliamo tra i gradoni di roccia, ora piccoli, ora impervi e sconnessi, sopra lo sterco di mucche, capre e asini, che passano disinvoltamente tra le case per raggiungere le zone verdi. Tra i vecchi sassi qualche papavero e qualche ciuffo di colza fiorita rendono preziose le vecchie pietre. Un asino bianco attende immobile di fronte all’ingresso della piccola stalla. La posizione del sole segna l’orario pomeridiano che volge al tramonto, arriverà qualcuno ad aprire? Un vecchio siede su di un malconcio divano, tenuto in equilibrio con l'aiuto di pesanti sassi, all’entrata di casa. Elegante, negli abiti tradizionali, e assorto nella contemplazione silenziosa dell’intorno, all’ombra provvidenziale della casa di fango e argilla. Stringe nella mano una paletta per le mosche, più volte rattoppata, come fosse un arnese di maestosa importanza. Poche le persone in giro a quest’ora, solo i primi animali di ritorno dal pascolo.

Incrociamo lo sguardo di un’anziana (o, forse, nemmeno tale quando ci soffermeremo ad osservarne il viso da vicino). Non esita ad accoglierci, subito, gioiosa, offrendoci i migliori cuscini di casa (vecchi sacchi riempiti di paglia e appoggiati a terra). Felice di avere ospiti, ricomparirà dopo un attimo con una brocca di acqua fresca. Ce ne stiamo così, cercando una conversazione fatta di sorrisi, di gesti eloquenti e di osservazione, di pochissime parole. Dopo dieci minuti di “chiacchiere” ci chiederà di restare ancora, vuole preparare un tè e prolungare questa pausa di condivisione. Arriverà con i bicchieri di vetro e un piatto di biscotti. Quel che ha, lo vuole offrire a noi, in semplicità e grande ricchezza d’animo. I suoi evanescenti occhi azzurri, segnati da una riga di kajal, saranno motivo di grandi sorrisi, tanto da chiamare la figlia per coinvolgerla nello stupore delle nostre somiglianze… abbiamo gli occhi dello stesso colore! Nel frattempo ci ha raggiunto Shain e potremo così, con il suo aiuto, ascoltare la vita di questa donna dolcissima. Si chiama Iran e non conosce di preciso la sua età. Forse ha 52 anni, forse pochi di più. Vedova, con la più grande ambizione di vedere sposata la figlia che si schermisce ascoltando la madre.

Percorriamo il villaggio in un saliscendi continuo che alla fine ci farà ritornare ansimanti, mentre il tramonto versa un alone dorato, facendo risplendere le minuscole abitazioni e le stalle che si confondono tra le case. Alcuni pescatori si attardano lungo il fiume, le mucche stanno già rientrando, in file ordinate, per la notte. Le poche luci accendono, in successione, le case sul pendio, come un semplice e umile presepe. Se non fosse realtà, tutto ci sembrerebbe sogno e poesia.

Sono passate da un po’ le otto della sera, le capre saranno le ultime a rientrare, correndo veloci. Una donna si infila un paio di larghissimi pantaloni maschili, sopra la lunga veste, e si appresta a mungere la mucca di casa. Un altro gruppo di donne, in abiti tradizionali, si ritrova sul tetto in battuto, a pulire il prezzemolo. Volti di serenità ci sorridono e salutano. Scattiamo una foto, ancora sorrisi.

La collina si ricopre di un susseguirsi di puntini luminosi, mentre ceniamo sul terrazzo della nostra stanza, in ascolto dei suoni di una giornata che sta per concludersi: il dolce rumore dell’acqua che scorre a valle, un asino che raglia, un bisticcio di cani che si rincorrono, una moto che rientra dopo l’ultimo (rauco) Muezzin, un vociare di bambini, un’amica che bussa alla porta per una chiacchiera serale e sì, anche uno squillo di cellulare, che irrompe quasi a risvegliarci da un tempo lontano. Qualche stella compare nel cielo, unendosi alle piccole lampade delle case, il silenzio si fa sempre più esteso. Sotto il nostro piccolo terrazzo tre mucche dormono all’aperto, per loro nessuna stalla, mi addormenterò pensandole senza alcun riparo.

Alle 4.20 il primo Muezzin scandisce l’inizio di un nuovo giorno. Tra muggiti, richiami di cani e di galli, le mucche sono le prime a partire verso l’alpeggio. Il loro passo è blando, forse ancora assonnato, l’andamento è sicuro. Si muovono conoscendo alla perfezione ogni sasso, ogni movimento, ogni luogo. Le ultime a partire verso le alture più erbose saranno le capre, più agili e svelte.

Ci chiediamo come sarà affollata la via dei kolbar, a che punto saranno i magri uomini piegati dal peso di un frigorifero portato sulla schiena e quanta strada avranno percorso durante il nostro sonno. Possiamo indugiare ancora un po’ nel sacco a pelo appoggiato a terra, sopra una polverosa coperta ripiegata in due. Ci sembra una grande comodità nonostante la poca morbidezza del fondo. Fardin ha già preparato il tè.