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GEORGIA, tesori racchiusi tra le vette del Caucaso

Il sentiero per raggiungere la chiesa di Tsminda Sameba inizia subito dopo la piazza del paese e dopo l’attraversamento di un fiume frizzante e rumoroso, girando a sinistra verso le pendici del bosco. Il percorso attraversa selve spettacolari e profumate e sullo sfondo si riesce presto a scorgere la piccolissima chiesa del XIV secolo, che si adagia sulla cresta della montagna, immersa nella vastità del Caucaso. Sopra di noi boschi e vallate e distese di alberi che sembrano attendere il nostro passaggio, mentre la pioggia, fortunatamente, ha deciso di smettere e di regalarci un tempo asciutto per poter salire, a piedi, fino alla piccola chiesa costruita a 2000 metri di altitudine. Le auto della polizia, che stazionano nella piazza, sono dei moderni pick-up, sicuramente utili per muoversi tra le alte montagne, dove molte zone rimangono isolate nei mesi rigidi e nevosi dell’inverno caucasico.

Il paesino di Stepantsminda (più noto come Kazbegi) è un tuffo nel passato: vecchie case di campagna semidiroccate, galline che scorrazzano in cerca di cibo e galli che scandiscono la giornata, anziani che lavorano la terra, piccoli orti, alcune mucche che vagano in libertà, giovani ragazzi fiaccamente appoggiati ad un vecchio palo della luce e un’anziana con grosse calze di lana e vecchie scarpe di gomma che aiuta il marito ad aggiustare una malconcia recinzione che sta per cadere a pezzi. I tubi del gas corrono colorati di casa in casa attaccati ad un contatore precario. I gasdotti arrivano dalla Russia e attraversano l’intero paese. Un quadro d’altri tempi, atmosfere antiche, nostalgici ricordi di nonni che non ci sono più… di passeggiate divertenti, ma severe, di antiche faccende, di giornate trascorse in un ritmo lento ma operoso. 

I cani vivono in libertà, sono tanti e sono ovunque. Sono parte di una natura ancora libera di esprimersi, così come lo sono le montagne, i fiori, i picchi innevati, gli alberi immensi, l’Uomo. Come il grosso cane color miele che ha deciso di seguirci e di percorrere insieme a noi buona parte del nostro cammino. Il nostro nuovo amico è una femmina che, a giudicare dalle grosse mammelle, è da poco diventata mamma. Ci segue, ci precede indicandoci a strada, ci attende ad ogni nostra sosta. Ad ogni curva cambia il paesaggio, il sentiero è un intrico di boschi meravigliosi, una vegetazione che muta di passo in passo, tra pini, betulle ondeggianti, campi fioriti. Non riusciamo mai a scorgere nella sua interezza il paesaggio che ci circonda, come in un’attesa che ad ogni svolta regala nuove emozioni. Ed ecco sul finire dell’ennesima salita, mentre ansimiamo per la stanchezza, la fatica e la mancanza di ossigeno, comparire davanti a noi uno spettacolo magnifico. Il cielo grigio sembra aprirsi, le nuvole paiono spostarsi come tende leggere di una finestra che ci apre lo sguardo verso l’immensità, il sole sembra volerci far dono di una vista inaspettata sul ghiacciaio Kazbek (5047 metri).  

La chiesa si manifesta in tutta la sua bellezza e nella plasticità della sua altera posizione, proprio a dominare la montagna che la accoglie, nonostante la sua esile e quasi fragile figura. Un vento battente raffredda in pochissimi istanti il nostro corpo sudato ed io mi ritrovo rapita dallo spettacolo, incapace di provare freddo, e nemmeno stanchezza, ma solo incantesimo. Mi devo fermare e accogliere nei miei occhi e nel mio cuore tutta la bellezza che ho di fronte. Non potevo immaginare che la parola “Caucaso” potesse svelare simili tesori. Ripartiamo dopo qualche minuto di ammirazione per percorrere l’ultimo tratto che porta alla chiesa, tra mucche al pascolo e una cornice di montagne innevate. C’è bisogno di lentezza per assaporare quei metri che ancora ci distanziano, ma sono ritornate le nuvole. Dense e incombenti sembrano ridiscendere piano dal cielo per avvolgere nuovamente la piccola chiesa come una coltre di protezione.

Forse, la bellezza va centellinata, dobbiamo imparare ad averne cura, a prenderla quando c’è, ad assimilarla in piccole dosi di meraviglia, a riconoscere il fugace attimo come un dono prezioso. Così anche il ghiacciaio scompare nuovamente e la piccola chiesa ritorna a galleggiare tra le nuvole. Ci avviciniamo con passi misurati, dobbiamo coprirci il capo e indossare una sorta di sopraveste per le gambe. Un giovane monaco in abito nero e i capelli lunghissimi ci accoglie all’ingresso offrendoci tre sottili candele di cera d’api, l’offerta riservata ad ogni pellegrino che si avventura quassù, affinché possano essere accese dentro alla chiesa, ritornata al culto e alla Chiesa ortodossa georgiana dal 1991, con l’indipendenza del Paese. L’interno è austero, riscaldato da una piccola ma potente stufa di ghisa, il tepore ci accoglie come un abbraccio morbido e confortante. Il richiamo dei minuscoli punti di luce, appena percettibili dall'esterno, prende forma nelle poche candele accese, come un senso di rassicurante arrivo.

La chiesa non offre particolari opere d’arte, né tesori inestimabili, ma l’atmosfera che vi si respira è unica, carica di un silenzio importante. Le flebili candele illuminano i volti dei Santi, di Gesù Cristo, della Vergine. Nessuno, oltre a noi. Un’esclusività che ci consente una totale fusione mistica ed estraniante. Mi trovo in uno di quei luoghi dai quali è difficile separarsi e che vorresti portare con te per sempre, nella tua memoria, per potervi attingere ogni qual volta la tua anima senta il bisogno di un rifugio d’intima riflessione. Prendo tempo, ancora cerco di assorbire questo luogo affinché mi entri nella mente e nel cuore, respirando il più a lungo possibile in questo piccolo e potente guscio di fede.

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Lasciamo Tminda Sameba (chiesa della Santa Trinità) per ripercorrere in discesa il sentiero che ci riporta a Kazbegi. Il sole fa capolino un’ultima volta e ci accompagna quasi fino alla fine del nostro percorso. Una pioggia sottile comincia a scendere quando siamo alle ultime curve, aumentando di intensità sul finire del nostro cammino, quando già vediamo la nostra Mercedes ad attenderci. Fortunate e felici, Nino ed io. Le gambe stanche, mi lascio andare sul sedile dell’auto. Il silenzio ancora satura l’aria di misticismo e contemplazione. La pioggia che ci stava investendo non avrebbe minato la gioia del cuore.

 

Nei piccoli villaggi ancora si vede qualche vecchia auto russa dai colori pastello sbiaditi nel tempo, mentre attraversiamo il Jvari Pass (Passo della Croce) a 2379 metri, il punto più alto della Strada Militare Georgiana, dove trova riposo il piccolo cimitero dei prigionieri tedeschi che morirono ai lavori forzati, durante la seconda guerra mondiale, per ampliare le strade che oggi percorriamo, arterie fondamentali nello sviluppo economico attuale. Giacciono qui, tra le alte montagne.

Rientrando a Tbilisi, il sinuoso Ponte della Pace abbraccia il fiume Kura e identifica la piccola capitale georgiana in un simbolo di armonia e di luce, la chiesa di Mtsketa riappare magnifica e rassicurante prima dell’arrivo in città. George volge lo sguardo verso la chiesa e fa il segno della croce per ringraziare Dio di averci assistito in questo viaggio, Nino lo segue, io pure.