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Fortezze curde e l’antico regno di Urartu, alle origini dell’Armenia

Scendiamo lungo la stretta strada polverosa, il castello curdo di Hoşap svetta sullo sperone roccioso, ricordando la meraviglia delle fortezze yemenite costruite sugli alti contrafforti di roccia. Lo si trova sulla strada che da Van porta a Hakkari, verso sud, in un altro territorio a prevalenza curda.

Del custode nessuna traccia, non potremo varcare l’imponente portone incastonato nell’enorme torre rotonda impreziosita dai rilievi di due leoni e dall’iscrizione in persiano scolpita in una lastra di basalto nero. 1643 la data di erezione. Una cornice con decorazione muqarnas e una modanatura di pietre bicolore impreziosiscono l’ingresso.

Nel piccolo villaggio di Güzelsu, che ha lo stesso nome del torrente che un tempo scorreva lungo il perimetro della fortezza, seguiamo il profumo del pane, fino a raggiungere il fornaio e acquistare qualche pagnotta ancora tepida, incontrando tre ragazzini in uscita dalla scuola con il corano tra le mani. Due di loro stanno mangiando golosamente un ghiacciolo, al terzo offro qualche spicciolo per poterlo acquistare. Ci fermiamo curiosi, i bambini stringono il libro al petto, qualche parola in inglese stentato, sorrisi timidi e poi via, di corsa verso casa, la scuola per oggi è finita. Intorno, un paesaggio rurale di vecchie case di fango e tetti in battuto d’argilla, dove si inserisce la merlatura dei resti delle antiche mura di cinta ancora visibili. Una coppia di asini bianchi si muove in libertà, il carico sulla bestia adulta, conoscono la strada. Si fermano quell’attimo, fisso i grandi occhi neri, poi una foto e il castello ritorna nella sua severa immobilità.

Ma le sue vicende ci portano ben più lontano nella storia, fino all’antichissimo regno di Urartu (860-585 a.C.), e i suoi resti sono ancora oggi visibili a pochi chilometri da qui, dove ci attende Mehmet, 82 anni, puntuale all’imbocco del sito, incurante del sole rovente. Sotto il braccio un libro consumato dal tempo e rattoppato con il nastro adesivo, che racconta la storia di Cavustepe, la cittadella fortificata nell’antico regno di Urartu, e una mappa sgualcita. Urartu significa “paese di montagna” e sarà trascritto poi nel nome biblico Ararat. Siamo nella fortezza di Hayk, leggendario patriarca e fondatore della nazione armena, discendente di Noè.

L’architettura urartiana, in posizione strategica sulla collina, trova un equilibrio perfetto e la cittadella racconta di un castello, due templi, una necropoli, otri per il vino e tini di argilla per il grano, oltre ad un bagno. I grossi blocchi di basalto sono sapientemente lavorati ed uniti per formare le mura e i basamenti, la parte superiore destinata all’uso residenziale rivela l’uso di mattoni di fango. Una parete incisa a caratteri cuneiformi, scolpisce le parole di orgoglio di re Sarduri II (764-735 a.C.), che proclama l’immensità dell’opera dedicata al Dio Irmushini.

Mehmet è un uomo magrissimo, scattante, con il viso bruciato dal sole e solcato di grinze profonde. Ha dedicato la sua vita allo studio della storia urartiana ed è una delle pochissime persone (sembra una dozzina) al mondo a saper leggere le iscrizioni in caratteri cuneiformi di Urartu. Forse l’ultima, qui, se uno dei figli e la nipotina non manterranno la promessa di tenera viva questa lingua che il vecchio Mehmet sta insegnando loro.

Disegna per noi una sorta di lavagna nel terreno polveroso, spianando con le mani callose la terra e i sassi, vuole raccontarci la storia dei re di Urartu e come si legge questo alfabeto sconosciuto. Rimango in silenzio, affascinata da quest’uomo che se ne sta nel casottino di pietra ad incidere basalto per creare piccoli oggetti e tavolette che riportano scritte cuneiformi, da vendere ai turisti che arrivano fin qui. Un lavoro che gli ha permesso nel tempo di mantenere la famiglia numerosa.

Con orgoglio mi mostra alcuni giornali che parlano di lui e del libro che lo racconta come “custode del tempo perduto”.

Lui accompagnava turisti e ricercatori e la sua vita cambiò quando una squadra di archeologi si bloccò di fronte ad un’iscrizione. Mehmet imparò a decifrare, a scrivere e parlare la lingua urartu. «Italian?» mi chiede. «Yes, italian!». Entro nella casupola di pietra dove sono esposti i suoi lavori e la sua attrezzatura sulla finestra. «Do you know Salvini? Mirjo Salvini?», dice mentre estrae un testo turco di recente pubblicazione (2006) “Storia e cultura urartu”, giusto in tempo perché il nome non cigolasse alle mie orecchie. Ho cercato, poi, il libro e ne ho trovata una copia del 1967, tra vecchie edizioni (Nairi e Ur u atri. Contributo alla storia della formazione del regno di Urartu. Di Mirjo Salvini - Ediz. dell'Ateneo), pubblicata a cura dell’Istituto di Studi Micenei ed Egeo Anatolici di Roma.

Mehmet ha un sorriso bellissimo, questa è la sua casa. Con il suo lavoro cerca di mantenere viva la storia, di portare avanti gli studi e le fatiche di una vita, di cui si legge negli occhi l’orgoglio. Negli anni, anche gli Stati Uniti lo invitarono, in cambio di un lungo visto, affinché portasse l’alfabeto urartiano oltre oceano, ma lui rifiutò. La sua famiglia era più importante, lui doveva prendersene cura e tanto bastò per far diventare la sua ricerca un lavoro, anche attraverso la vendita dei piccoli oggetti scolpiti.

In questo sito e nel castello di Cavustepe, da lui sorvegliato come guardiano per tutta la vita, ancora oggi accompagna i visitatori e gli studiosi, rappresentando un punto di riferimento solido e unico. Un personaggio straordinario.